venerdì 3 novembre 2023

Calvino dopo vent'anni

Questo mese abbiamo avuto una bella idea al club di lettura. Invece di proporre un libro uguale per tutti, abbiamo chiesto a tutti di leggere un testo a scelta di Italo Calvino.
Cosa mi ricordavo di Calvino? In genere che mi era piaciuto. Avevo letto tutto il trittico Barone-Visconte-Cavaliere durante l'adolescenza. Era stato bello e lo avevo lasciato lì. Dopo vent'anni ritorno su questo autore e scelgo un libro a caso.

Le edizioni Einaudi erano belle (ndr.)
Siamo nell'Italia dei primi anni '50. Il paese si sta faticosamente riprendendo dalla guerra e si iniziano a vedere i primi cenni di boom economico che, nel libro, è soprattutto un boom edilizio. In pochi anni il piccolo paese sonnacchioso del protagonista (Quinto) viene stravolto da ondate di cemento e nuove palazzine che sorgono ovunque affollando il litorale marittimo. In questo contesto, Quinto prende la palla al balzo per mettersi in affari con un impresario molto dubbio, per far fruttare l'area fabbricabile contigua alla casa della madre.
Detta così sembra una palla no? Invece no, è un libro stupendo. Mi rendo conto di essere vicino a quella bruttissima fase della vita in cui guardi gli altri e, inclinando lo sguardo con fare condiscedente, ti lasci sfuggire frasi tipo sai, in questo periodo sto riscoprendo i classici. Cosa che ti fa immediatamente meritare il linciaggio. Però in questo caso purtroppo è vero. In questo preciso momento Calvino per me è stato una riscoperta. Davvero, non mi ricordavo che scrivesse così bene. E con uno sguardo così acuto e imparziale sulla società e sulle persone che descrive.
Cerco di farvi capire cosa intendo.
Quando Quinto saliva alla sua villa, un tempo dominante la distesa dei tetti della città nuova e i bassi quartieri della marina e il porto,più in qua il mucchio di case muffite e lichenose della città vecchia, tra il versante della collina a ponente dove sopra gli orti s'infittiva l'oliveto, e, a levante, un reame di ville e alberghi verdi come un bosco, sotto il dosso brullo dei campi di garofani scintillanti di serre fino al Capo: ora più nulla, non vedeva che un sovrapporsi geometrico di parallelepipidi e poliedri, spigoli e lati di case, di qua e di là, tetti, finestre, muri ciechi per servitù contigue con solo i finestrini smerigliati dei gabinetti uno sopra l'altro.

Ok, questo qua sopra è un periodo unico. Ed è fluido. Mentre lo leggi non ti rendi conto neanche che non stai trovando interruzioni. A un certo punto diventa quasi una musica che ti accompagna alla fine del paragrafo. Qui siamo alla seconda pagina del libro. Letto questo mi sono bloccato e mi sono chiesto: "ma cosa cazzo ho letto fino ad ora? Per quale cazzo di motivo non ho letto prima questo libro? Cos'altro avevo di più importante da fare?". Ma questo non è ancora nulla. Leggete questa descrizione del protagonista che deve affrontare i debiti sui terreni posseduti:

A Quinto la preoccupazione di non aver al mondo neanche la decima parte dei quattrini necessari a pagarle e l'avito rancore contro il fisco degli agricoltori liguri parsimoniosi e antistatali, e poi l'ineliminabile rovello degli onesti d'essere loro soli massacrati dalle imposte «mentre i grossi, si sa, riescono sempre a scapolarsela», e ancora il sospetto che vi sia in quel labirinto di cifre un trabocchetto evitabile ma solo a noi sconosciuto, tutte queste turbe di sentimenti che le pallide bollette delle esattorie suscitano nei cuori dei più verginali contribuenti, si mischiavano con la coscienza d'essere un cattivo proprietario, che non sa far fruttare i propri averi e che in un'epoca di continui avventurosi movimenti di capitali, millantati crediti e giri di cambiali se ne sta mani in mano lasciando svalutare i suoi terreni.

 Di nuovo: un unico periodo. Nessuna sbavatura, nessuna flessione di tono, un discorso fluido dalla prima all'ultima parola. Dio Se Sapeva Scrivere.
Fino ad ora ho lodato la penna ma parlando del contenuto, quanto è precisa questa descrizione dell'uomo nel suo tempo? Quinto è l'italiano degli anni '50 (con alcune caratteristiche che arrivano fino ad oggi), perfettamente tagliato e descritto. Ora tenete presente che questa cosa viene fatta sistematicamente anche per la società:

Perché insieme al contratto (tutto con cifre posticce, come s'usa, per via del fisco), bisognava firmare una «scrittura privata» in cui figuravano le cifre vere ed era precisato il carattere della società con Caisotti per la costruzione della casa, che nel contratto appariva tutta in testa a lui. Invece, arrivati alla «scrittura privata» Caisotti si dimostrò pronto a favorire gli Anfossi in tutto e per tutto: propose anzi lui stesso degli accorgimenti perché la finanza non potesse trovarci nulla da ridire. E tutto questo faceva con risatine furbesche e strizzatine d'occhio, sollevando intorno a sé un pantano di complicità, tanto che la madre, che in queste cose non ci si ritrovava, s'azzardò a dire: - Ma non sarebbe meglio dichiarare le cose come stanno senza far tanti pasticci, anche se si paga qualche tassa in più? - Tutti le diedero sulla voce, gentilmente i legali, seccatamente il Caisotti e i figli, ma Quinto già s'era fatto l'idea che a complicare quella storia della «scrittura privata» il Caisotti avesse il suo tornaconto: forse pensava d'averli poi in sua mano, di vincolarli alla sua omertà.

Quanta Italia c'è in questo paragrafo? Quante situazioni, come questa, abbiamo vissuto in vita nostra in qualunque ambito? Si tratta di un intreccio di rapporti, coazioni ad agire, consuetudini secolari che permea le nostre vite dall'acquisto di case alla fattura con l'idraulico.
Ultima citazione che metto qua, perché ancora parla di noi:

Era una folta Italia in tailleur, in doppiopetto, l'Italia ben vestita e ben carrozzata, la meglio vestita popolazione d'Europa, quale contrato per le vie di *** con le comitive goffe e antiestetiche dei tedeschi inglesi svizzeri olandesi o belgi in vacanza collettiva, donne e uomini di variegata bruttezza, con certe brache al ginocchio, coi calzini nei sandali o con le scarpe sui piedi nudi, certe vesti stampate a fiori, certa biancheria che sporge, certa carne bianca e rossa, sorda al buon gusto e all'armonia anche nel cambiar colore. Queste falangi straniere che, avide dei bagni fuori stagione, prenotavano alberghi interi succedendosi in turni serrati da aprile a ottobre (ma meno in luglio e agosto, quando gli albergatori non concedono sconti alle comitive) erano viste dagli indigeni con una sfumatura di compatimento, al contrario di come una volta si guardava il forestiere, messaggero di mondi più ricchi e civilmente provveduti. Eppure, a incrinare la facile alterigia dell'italiano ben messo, disinvolto, lustro, esteriormente aggiornato sull'America, affiorava il senso severo delle democrazie del Nord, il sospetto che in quelle ineleganti vacanze si muovesse qualcosa di più solido, di meno provvisorio, civiltà abituate a concludere di più, il sospetto che ogni nostra ostentazione di prosperità non fosse che una facile vernice sull'Italia dei tuguri montani e suburbani, dei treni d'emigranti, delle pullulanti piazze di paesi nerovestiti: sospetti fugacissimi, che conviene scacciare in meno d'un secondo.

Questo libro è stato pubblicato nel 1963. Quanto siamo cambiati da allora? Quanto di questo complesso di superiorità e inferiorità misto a sindrome dell'impostore abbiamo superato? A me sembra ben poco. Siamo sempre quelli.

Serve rileggere Calvino.